di Giuseppe Goffredo
Ed ora eccoci. E’ Pasqua. Siamo qui. Guardiamoci. Sappiamo che c’è sofferenza sulle nostre spalle. Ma sappiamo, anche, che ci siamo. Siamo qui. Siamo vivi. Abbiamo una sensibilità e una intelligenza. Sappiamo che abbiamo figli e luoghi che amiamo. Amiamo la vita e pensiamo che il mondo debba avere ancora la sua occasione per rimettersi in piedi. Che sì, lo sappiamo, è un momento molto duro e incerto; che la sospensione ci crea angoscia, difficoltà e paure. Ma, sappiamo, anche, che dobbiamo pensare e mettere in campo tutta la nostra forza, coraggio e azione per guardare chiaro davanti a noi. Alcune persone: medici, infermieri, camionisti, anziani inermi, migranti, gente qualsiasi, poveri, già lo stanno facendo.
Noi dobbiamo prepararci, essere vigili, in questi giorni, acquisire una coscienza umana e una presenza pubblica più forte. Sapere che il “dopo” sarà difficile. Difficile come il tempo dopo un terremoto. Ma dobbiamo, anche, sapere che con la violenza non sarà possibile risolvere i problemi; che la ricetta di rifugiarci nella regressione, nell’odio, l’intolleranza non è la via giusta.
Noi, io penso, dobbiamo utilizzare questo tempo di isolamento e sospensione, per metterci in contatto con la nostra parte migliore. Ricomporre l’unità del noi stessi e sapere cosa fare. Ricomporre un noi sociale, collettivo, di comunità, tessendo reti di solidarietà, maniere di aiuto reciproco. Mi pare questo l’unico modo per risolvere insieme i problemi, gli affanni, i bisogni che verranno. Dobbiamo fare un bagno di umiltà e nudità. Sapere che sarà dura. Ma anche sapere qual è la strada per risorgere.
Può essere questo la Pasqua. La nostra Pasqua. Il segno del nostro esserci. Esserci nel segno del nostro tempo. Nella sua ferita grave e profonda. Non la paura ma il coraggio di essere in piedi. Camminare nel mezzo del sanguinamento. Sapere che ce la possiamo fare. E farlo non nella regressione, nell’odio, nella violenza, ma nella dolcezza e nella solidarietà. Scegliere la nostra parte migliore. Farlo perché ne abbiamo l’occasione. Sorgere, risorgere dalla nostra parte che risplende, ama e sogna.
E’ questa la via davanti a noi. Questo è lo sguardo. Questo ci dicono gli alberi che germogliano. Gli alberi non sanno fare il male. Gli alberi si parlano, crescono gli uni accanto agli altri, si toccano, convivono, respirano insieme, intrecciano le loro radici. Gli alberi per noi, sono diventati l’“albero della vita”, il simbolo della continuità e persistenza dell’essere. Per questo il giorno delle Palme amiamo scambiarci un segno di pace con un ramoscello di ulivo, gli ulivi oggi malati di Xylella. Gli alberi ci fanno compagnia, ci donano i loro frutti, fanno belli i nostri visi quando sono in fiore, quando siamo accaldati ci riparano con l’ombra e in cambio non chiedono niente. Cristo si è fatto crocifiggere ai legni di un albero. Non sappiamo di quale legno era fatta la croce ma era sicuramente del legno di un albero, il legno che Giuseppe lavorava per farne porte e finestre e riparare le case delle persone. L’albero, ho sempre pensato è un agnello di Dio, simbolo della vita che nasce, rinasce, germoglia; esso sa rigenerarsi dalla parte migliore, dalla parte della non violenza, dalla parte della pazienza, dalla parte della luce. E’ questo l’albero della Pasqua, l’albero della croce che per i cristiani e il simbolo della sofferenza, del martirio, del dolore, ma anche il simbolo del risveglio, della resurrezione, della rigenerazione. Dopo tanto soffrire, l’angelo si presenta a chi cerca Gesù: è il lunedì in Albis e intorno al sepolcro, dove il Cristo è risorto, c’è luce. La luce del giorno “dopo” che indica una epifania, una strada, un sogno nuovo per tutti.